Microplastiche nell’olio di oliva? I risultati di una ricerca italiana

Misurato il quantitativo di particelle in oli italiani e oli dell'Unione europea, con risultati totalmente differenti
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Un team di ricercatori dell’Università di Firenze ha recentemente segnato un importante traguardo nel campo della sicurezza alimentare, sviluppando e validando la prima applicazione della spettroscopia laser infrarossa diretta (LDIR) per il rilevamento delle microplastiche nell’olio extravergine di oliva (EVOO). Lo studio, pubblicato su una prestigiosa rivista scientifica internazionale – Food Chemistr – introduce un metodo innovativo per affrontare un rischio emergente in una delle matrici alimentari più complesse da analizzare a causa della sua elevata densità lipidica.

Fino ad oggi, l’identificazione di contaminanti in sostanze grasse come l’olio ha rappresentato una sfida tecnica notevole. Tuttavia, grazie alla tecnologia LDIR, è ora possibile caratterizzare simultaneamente le microplastiche in termini di tipologia di polimero, dimensioni e morfologia, mantenendo un’elevata integrità dei dati. L’efficacia di questo approccio si basa su un protocollo di pretrattamento ottimizzato che prevede la diluizione con solvente, la filtrazione sotto vuoto e il controlavaggio con etanolo. I test condotti su campioni provenienti sia da frantoi toscani che dalla grande distribuzione hanno confermato l’efficacia della procedura, con un tasso di recupero delle particelle del 95,7%.

Una slide dello studio prodotta dall’Università di Firenze

Le analisi hanno rivelato la presenza di microplastiche in tutti i campioni esaminati, permettendo di mappare la composizione polimerica e la forma dei frammenti con estrema precisione.

In particolare gli oli d’oliva toscani provenienti da frantoi locali presentavano concentrazioni comprese tra circa 10 e circa 1.700 particelle per litro, con la maggior parte dei campioni inferiori a 350 particelle per litro. Al contrario, i due oli d’oliva da supermercato etichettati come “prodotti nell’UE” hanno mostrato livelli molto più elevati, che vanno da circa 4.000 a più di 7.900 particelle per litro.

Anche se studi futuri analizzeranno più approfonditamente queste discrepanze, rileva Olive Oil Times, i ricercatori hanno suggerito che la spiegazione più probabile è la lunghezza della catena di approvvigionamento. Patrizia Pinelli, professore associato di scienze delle materie prime presso l’Università di Firenze e coautrice dello studio, ha spiegato ad Olive Oil Times che “negli oli d’oliva della grande distribuzione con etichetta di origine UE, le olive possono essere raccolte in un Paese e molite in un altro, oppure conservate per periodi molto più lunghi. In Toscana, la trasformazione da oliva a olio avviene solitamente entro 24-48 ore. Una filiera più lunga aumenta naturalmente le possibilità di contaminazione”.

Sebbene siano necessari ulteriori studi su scala più ampia per stabilire tendenze definitive, i risultati preliminari suggeriscono che le fasi di produzione e la gestione della catena di approvvigionamento possano incidere sui livelli di contaminazione riscontrati.

Questa scoperta ha implicazioni profonde per l’intera filiera dell’olio extravergine di oliva, simbolo della dieta mediterranea e pilastro dell’economia agroalimentare. L’introduzione di uno strumento analitico così sensibile offre a produttori e organismi di regolamentazione un mezzo concreto per garantire la trasparenza e rispondere alle crescenti richieste di sicurezza dei consumatori. L’applicazione della spettroscopia LDIR non solo fornisce una base scientifica solida per future strategie di mitigazione, ma apre anche la strada al monitoraggio sistematico dei contaminanti emergenti negli alimenti grassi, promuovendo standard di qualità sempre più elevati.

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Tags: in evidenza, microplastiche olio di oliva

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