“All’olivicoltura serve un guizzo imprenditoriale. Perché non è pensabile che si continui ad utilizzare appena il 10/15% del prodotto finale e tutto il resto, nella migliore delle ipotesi, vada indirizzato a fini energetici. Anche perché gli aiuti europei non sono più quelli di prima”.
Parlando agli aspiranti assaggiatori che l’Agenzia Marche Agricoltura Pesca ha forgiato con il corso di idoneità fisiologica all’assaggio dell’olio di oliva, Maurizio Servili (nella foto) – imprescindibile punto di riferimento del settore olivicolo-oleario – affronta a tutto campo un tema che merita di essere divulgato ad una platea più ampia.
Professor Servili, è una questione di sostenibilità quella su cui lei stimola il comparto?
“Esattamente. Se pensiamo che l’80/90% del prodotto olivicolo è un rifiuto, di quale sostenibilità parliamo! Nel pianeta siamo arrivati ad 8 miliardi di persone, come posso accettare l’idea che un prodotto alimentare venga destinato quasi totalmente a fini energetici, tra nocciolino come calorifero e sansa per alimentare i biodigestori. Per non parlare di come vengono utilizzate le acque di vegetazione che hanno una ricchezza di polifenoli incredibile”.
Riavvolgiamo il nastro. In fondo con la guerra in Ucraina abbiamo visto che di energia dobbiamo approvvigionarci da soli, dunque perché demonizzare pellet da nocciolino e impianti a biogas?
“Non li demonizzo, ma non può essere l’unica soluzione. E lo dico per due ordini di motivi. Il primo economico: con la progressiva introduzione degli impianti a due fasi nei frantoi, i sansifici perderebbero la loro ragione di esistere. Dunque, non solo perderemo quel 3% di olio che comunque i sansifici riuscivano a recuperare, ma con il monopolio delle sanse in mano al mondo del biogas, ciò che oggi viene ritirato ricompensandolo al frantoiano solo con le spese di trasporto, da domani è facile che dovrà essere smaltito a pagamento, perché utilizzabile solo da questi impianti. Il secondo motivo, più importante, di ordine etico: un prodotto alimentare va destinato all’alimentazione umana, valorizzandolo il più possibile, non appena per il 10%. Guardiamo il vino: una filiera praticamente a scarto zero, con il 95/98% di prodotto valorizzato. E aggiungerei anche un terzo elemento da non dimenticare: se non diamo valore a questo 80/90% dell’oliva, rischiamo di far morire un settore che vive grazie agli aiuti dell’Europa, ma che con la nuova Pac, ricordiamocelo, non riceverà più i soldi di prima”.
Dunque, quale alternativa propone?
“Utilizzare sansa e acque di vegetazione anche per fini alimentari o, in alternativa, per la zootecnia”.
Già, ma come?
“Guardi, vi sono studi avanzati che andrebbero trasferiti a livello industriale dove la sansa può essere benissimo utilizzata per l’alimentazione umana. L’ultimo esempio in ordine di tempo viene dalla Spagna, dove con la sansa fanno una crema di olive spalmata tipo ketchup. Ma, come ho detto, è solo l’ultimo degli esempi. Sotto il profilo zootecnico, poi, la sansa, così ricca di acidi grassi, polifenoli e fibra, sarebbe l’ideale per miscelarla al foraggio o anche per produrre insilati al posto del mais. E poi ci sono le acque di vegetazione così ricche di polifenoli che andrebbero recuperati e utilizzati come antiossidanti per tante finalità sempre alimentari. Certo i polifenoli vanno estratti subito una volta prodotte le acque di vegetazione e questo implica processi rapidi, ma è una strada assolutamente percorribile”.
Cosa frena questa alternativa?
“Sotto il profilo della ricerca abbiamo tutto, manca quel guizzo imprenditoriale che servirebbe. Ci sono alcuni esempi che stanno partendo anche in Italia, ma è ancora troppo poco. Siamo in assenza di una organizzazione logistica, quella olivicola per altro è una filiera troppo frammentata. C’è solo da augurarsi che si prenda fortemente coscienza del problema e si favoriscano sempre più soluzioni innovative in questa direzione”.
di