di MAURIZIO SERVILI
da GERGOFILI.INFO
Il cambiamento climatico pone sfide sempre più rilevanti ed in alcuni casi drammatiche al nostro sistema agroalimentare. Alcune filiere si stanno dimostrando particolarmente suscettibili e vulnerabili nei confronti delle mutate condizioni ambientali, tra queste va purtroppo inclusa la filiera olivicolo olearia.
Per inquadrare in modo corretto il problema va ricordato che, pur avendo visto, la coltivazione dell’olivo nell’ultimo trentennio, un’espansione in aree geografiche collocate al di fuori del bacino del Mediterraneo, ciò non di meno una gran parte della produzione olivicola mondiale si concentra ancora nell’ambito del suddetto areale. Va infatti ricordato che solo la Spagna produce da sola poco più del 40% della produzione mondiale e mettendo insieme i volumi di prodotto di altri Paesi mediterranei arriviamo a circa il 90% dell’olio di oliva ottenuto su scala mondiale.
Questo significa che gli eventi climatici atipici, connessi al cambiamento climatico, che possono compromettere la produzione degli oli di oliva all’interno dell’areale mediterraneo, comportano perdite di prodotto di entità tali da non potere essere, se non marginalmente, rimpiazzate da eventuali incrementi di produzione, che potrebbero verificarsi nei Paesi produttori esterni alla suddetta area.
Una prova eclatante di quanto affermato è da ricercare in quanto verificatesi lo scorso anno, quando la produzione Spagnola ha subìto, causa le alte e prolungate temperature estive, associate ad una perdurante siccità, una riduzione di quasi il 50% rispetto alle medie di produzione degli anni precedenti e, purtroppo, qualcosa di simile si preannuncia per l’ormai imminente nuova campagna olearia. Anche in questo caso la Spagna è il Paese più direttamente coinvolto a causa della scarsa allegazione dei frutti dovuta alla siccità ed alle elevate temperature registrate, in fase di fioritura ed allegazione, in Andalusia, la più importante area di produzione olivicola spagnola.
Questo significa che quando un paese come la Spagna che da solo produce intorno a 1,2-1,4 milioni di tonnellate di olio (circa il 40% dell’olio mondiale) va in sofferenza produttiva a poco possono servire, in termini di compensazione sui volumi mancanti, i potenziali incrementi di produzione di altri Paesi mediterranei, Italia in testa, che ormai si colloca stabile tra le 200.000 e 350.00 tonnellate annue di olio (tra 8% ed il 10% della produzione mondiale).
Quanto detto pone una problematica nuova sul mercato mondiale degli oli di oliva che è quella della forte variabilità dell’offerta, variabilità che si è tradotta quest’anno in variazioni al rialzo dei prezzi di vendita senza precedenti, elemento questo che, se prolungato nel tempo, non potrà che andare a discapito dei consumi. Intendiamoci la produzione olivicola mondiale ha mostrato oscillazioni anche negli anni precedenti ma va puntualizzato che, complice l’entrata in produzione nei vari Paesi di nuovi oliveti, il trend produttivo è sempre risultato in crescita, come del reso i consumi. Abbiamo impiegato più di trenta anni per passere da poco più dell’1,5% del consumo degli oli vegetali mondiale a quasi il 3%, ma al momento si profila il rischio concreto che la riduzione dei consumi sia molto più repentina della loro lenta crescita trentennale.
Cosa fare quindi? Non possiamo certo sperare che il clima ritorni lentamente o, tanto meno, rapidamente all’interno di quello che un tempo definivamo, non senza un tranquillizzante senso di protezione, il “clima mediterraneo”. Dobbiamo quindi, per quanto possibile, adattarci come del resto hanno sempre fatto i Sapiens almeno negli ultimi 30.000 anni di permanenza incontrastata su questo pianeta. Cosa significa adattarsi in questo caso? Sicuramente adottare scelte colturali in campo olivicolo che potrebbero, almeno in parte, mitigare il devastante impatto del cambiamento climatico sulle produzioni. Non abbiamo lo spazio per dilungarsi su questo punto, ma alcune provocazioni le vorrei lanciare. Il primo aspetto, che riguarda prioritariamente l’olivicoltura Italiana, è di rendere produttivi gli impianti esistenti in modo che la piattaforma olivicola nazionale, potenzialmente in grado di produrre più di 500.000 tonnellate di olio non si collochi stabilmente a metà di questo valore, problema questo dovuto, per buona parte dei casi, all’adozione di irrazionali o inesistenti pratiche agricole applicate in una sempre più rilevante parte degli oliveti appartenenti alla fascia appenninica del centro e nord Italia.
Criticità queste che, in associazione con la vetustà degli impianti e spesso degli operatori, sono alla base della bassa produttività e della forte alternanza produttiva della suddetta area olivicola nazionale. E’ opportuno sottolineare infatti che, se ai problemi dei cambiamenti climatici aggiungiamo quelli antropici la costanza di produzione nel settore olivicolo rappresenterà sempre più una chimera. Ammesso e non concesso che quindi si riesca in Italia ad invertire la tendenza all’abbandono unitamente all’applicazione di pratiche hobbistiche nei nostri oliveti tradizionali, nasce comunque il problema di come orientare i nuovi impianti. Per il futuro dovremmo riflettere attentamente sul modello produttivo da applicare alla nuova olivicoltura a partire dalla valorizzazione della biodiversità.
Esempi di quanto affermato possono essere la messa a dimora di cultivar meno sensibili agli stress termici o idrici in fase di fioritura ed allegagione o la combinazione, sullo stesso areale, di cultivar con peridi di fioritura e maturazione scalari, quindi più elastici ed in grado sfuggire ai picchi di calore osservati, per esempio, nelle ultime due annate in Spagna, che limitano l’allegagione dei frutti o la successiva maturazione degli stessi con evidenti cali produttivi di olive e di olio. L’ampliamento della piattaforma varietale nelle diverse aree geografiche potrebbe garantire quindi una maggiore costanza di produzione oltre che, in alcuni casi migliorare anche la qualità del prodotto.
Altro elemento chiave che vede protagonista la biodiversità in olivo è la scelta di cultivar e modelli produttivi che permettano di ridurre i consumi idrici, visto che la mancanza di acqua per l’irrigazione degli oliveti ed i periodi di siccità prolungate rappresenteranno, purtroppo una costante per le condizioni produttive del futuro prossimo. In questo conteso, ad esempio, nell’eterna diatriba, almeno in Italia, tra modello intensivo e super intensivo, abbiamo dati scientifici che ci permettano di capire come si comportano i due modelli in condizioni di bassa diponibilità idrica legata siccità e ridotte diponibilità idriche per l’irrigazione? Sarebbe importante saperlo, perché al momento, la water footprint è stata interpretata solo come consumo idrico per kilogrammo di olio prodotto, con rispetto al quale impianti che hanno, in condizioni agronomiche ottimali, una maggiore efficienza produttiva evidenziano valori di consumi idrici minori.
Ma la domanda è: quando la disponibilità di acqua per ettaro di oliveto, diventa fattore limitante, cosa accade ai due modelli produttivi? Sarebbe interessante conoscerlo visto che al momento, nei nuovi impianti il modello super intensivo va per la maggiore. È quindi forse giunto il momento di ripensare gli obiettivi produttivi dell’olivicoltura tradizionale e moderna alla luce di una visione di sostenibilità colturale e direi, culturale, che sia sempre più consapevole delle mutate condizioni climatiche ed ambientali nelle quali l’olivicoltura mediterranea e non solo si troverà ad operare.