Con l’avvio della raccolta delle olive, la filiera olivicola italiana si trova ad affrontare una sfida che va ben oltre la resa produttiva o l’equilibrio sensoriale dell’olio, quella delle micotossine.
Invisibili all’occhio umano, ma capaci di incidere in modo decisivo sulla sicurezza e sulla commerciabilità del prodotto, le aflatossine, in particolare la B1 (AFB1), riconosciuta come la più pericolosa per la salute perché cancerogene – sono genotossiche e possono arrivare a provocare anche il cancro del fegato – sono entrate nei parametri di attenzione scientifica e normativa.
Le micotossine non derivano dai funghi che normalmente attaccano l’olivo, ma da agenti ambientali come Aspergillus flavus, che si insediano nei frutti attraverso le microlesioni causate dagli insetti che attaccano le drupe. La mosca dell’olivo (Bactrocera oleae) resta la principale responsabile, ma altre specie, dalla tignola (Prays oleae) alla margaronia (Palpita unionalis), possono aggravare la vulnerabilità della drupa.

L’aflatossina è una molecola chimicamente stabile, appartenente alla famiglia dei derivati cumarinici, che una volta entrata nell’olio non può più essere rimossa. Studi recenti condotti dal CREA e dall’Università di Bari hanno rilevato concentrazioni comprese tra 0,2 e 1,5 μg/kg in oli ottenuti da olive danneggiate o conservate in condizioni non ottimali. Sul fronte normativo, il Regolamento (UE) 2023/915, pienamente applicabile da luglio 2025, fissa il limite massimo di aflatossina B1 (AFB1) negli oli vegetali a 2 μg/kg. Altri Paesi adottano criteri ancora più restrittivi: negli Stati Uniti, la FDA applica una tolleranza zero, mentre i mercati asiatici, Cina, Giappone, Corea del Sud, richiedono analisi certificate per ogni lotto.

Al momento, per i frantoi italiani non esiste un obbligo d’includere esplicitamente le aflatossine nel piano HACCP, ma il principio di diligenza professionale sancito dal Codice Civile, articoli 1176 e 1218, rende chiaro che un produttore che trascuri tale rischio, in presenza di condizioni predisponenti, potrebbe rispondere per inadempimento contrattuale o, addirittura, per danno verso i consumatori ai sensi dell’art. 2043. Un olio contaminato oltre i limiti, non è soltanto un prodotto difettoso, è un’irregolarità che legittima la risoluzione del contratto di vendita e può aprire la strada a richieste di risarcimento.
La difesa fitosanitaria tradizionale non basta più, per proteggere l’olio da contaminanti chimici come le aflatossine, prodotte da funghi ambientali, è necessario tutelare la sanità e l’igienicità dell’oliva lungo tutta la filiera.
Raccogliere le olive in tempi rapidi, conservarle in ambienti ventilati e asciutti, utilizzare cassette forate e procedere alla molitura senza ritardi non sono più semplici raccomandazioni tecniche: sono veri e propri strumenti giuridici di tutela, che attestano l’adozione di tutte le cautele possibili in caso di contenzioso.
Solo un approccio integrato, che tenga insieme agronomia, entomologia, tecnologia e diritto, potrà garantire che l’olio extra vergine italiano rimanga non solo buono, ma soprattutto sicuro e conforme ai più severi standard globali. In sostanza, un olio fuori norma non è solo un rischio per il consumatore, ma anche per l’azienda, che si espone a contenziosi civili, sanzioni amministrative, danni d’immagine e perdita di mercato.
Per questo, prevenire le micotossine non è solo buona pratica agronomica: è una vera e propria assicurazione legale e commerciale.
Una tutela per chi produce, ma anche una garanzia di fiducia per chi sceglie e porta in tavola l’olio italiano.
Direttore AIPO
Associazione Interregionale
Produttori Olivicoli




















