L’estate del 2025 si sta confermando gravosa per gli oliveti italiani. Le temperature sono elevate, in molte regioni hanno superato stabilmente i 35 °C e, unite a precipitazioni scarse o assenti, stanno causando una condizione di stress termico per le piante e uno squilibrio per l’intero agroecosistema olivicolo.
In queste circostanze, la gestione agronomica si concentra sugli interventi in chioma, si ricorre a biostimolanti per limitare la traspirazione, si stimola la sintesi di composti osmotici e si cerca di proteggere i frutti nella delicata fase dell’accrescimento.
Risulta però evidente che simili strategie, se adottate in forma reattiva e isolata, non siano sufficienti ad affrontare una condizione che tende a diventare strutturale.
Il cambiamento climatico in corso impone una revisione del modello di gestione dell’oliveto: non si tratta più di mitigare danni eccezionali, ma di costruire una agronomia preventiva, capace di rafforzare la resistenza delle chiome e dell’ambiente radicale dell’olivo.
Un aspetto che, al momento, è poco approfondito nella pratica agronomica, riguarda ciò che accade nel suolo, dove si attivano reazioni complesse, che influenzano direttamente lo stato di salute della pianta, e che sono a loro volta condizionate dalle scelte gestionali dell’olivicoltore e dalle fluttuazioni climatiche.
Il self-DNA, cos’è e che problemi crea

Il caldo intenso delle ultime stagioni ha contribuito in modo rilevante all’aumento del self-DNA presente nel suolo, accelerando il processo di decomposizione dei residui vegetali, fenomeno noto come eremacausi, che riguarda in particolare foglie, ramaglie e frammenti trinciati lasciati in campo dopo le potature.
Questo rilascio rapido e abbondante di materiale organico, se non supportato da un’adeguata presenza di microrganismi attivi e da regolari apporti idrici, può portare a un aumento nel terreno di concentrazioni di DNA vegetale.
Il self-DNA, quando si accumula nel suolo, è percepito dalla pianta come un segnale di pericolo e l’olivo “legge” questa presenza come la prova che un altro olivo, simile a sé, è morto forse per cause fisiologiche, patologiche o ambientali gravi.
La risposta dell’olivo

Tutto questo toglie risorse alle pianta, senza alcun vantaggio reale, poiché si tratta di una “falsa emergenza” provocata da un segnale ambientale errato ma potente.
Proprio per questo, tra gli aspetti da controllare, c’è la gestione dei residui vegetali: se da un lato la trinciatura e il rilascio in campo sono pratiche diffuse e spesso utili, dall’altro, se non opportunamente gestite, possono nel tempo contribuire all’accumulo di self-DNA nel suolo.
Questo rischio aumenta quando si sommano condizioni sfavorevoli come siccità prolungate, scarsa attività microbica e assenza di piogge significative, che impediscono il dilavamento dei residui: in tali situazioni, il DNA tende a concentrarsi nelle immediate vicinanze delle radici, favorendo forme di “stanchezza del suolo” non imputabili a carenze minerali o a patologie evidenti.
Tale affaticamento si potrebbe manifestare con una crescita stentata, scarsa vitalità vegetativa, una ridotta capacità esplorativa dell’apparato radicale e maggiore vulnerabilità agli stress ambientali. Alla luce di queste evidenze, molti olivicoltori che percepiscono come un calo di vigore in appezzamenti storici, nonostante piante apparentemente sane, potrebbe essere, invece o almeno in parte, spiegato proprio attraverso questo modello interpretativo.
Le strategie di difesa

La trinciatura e il rilascio in campo sono pratiche comuni, ma è importante evitarne l’accumulo eccessivo.
Altro aspetto da considerare è il bilancio dell’azoto nel processo di decomposizione, i microrganismi impiegano molto azoto per degradare tessuti lignificati, e in sua assenza possono trovarsi a competere direttamente con la pianta per le stesse risorse.
È, pertanto, utile integrare l’apporto di azoto al terreno in modo mirato dopo la potatura, ad esempio, 1–1,2 kg per quintale di residui vegetali, pari a circa 30–35 kg/ha sotto forma di urea o altro fertilizzante azotato, per sostenere l’attività microbiologica del suolo.
Anche la scelta degli ammendanti assume un ruolo cruciale, è preferibile non utilizzare compost derivati da residui della stessa coltura, come sansa compostata o trinciato d’olivo, e orientarsi, invece, verso materiali di origine zootecnica ben maturi, compost vegetali misti, o ammendanti minerali come la leonardite, ricca di sostanze umiche e fulviche.
Questi prodotti, oltre a migliorare la struttura fisica del suolo, stimolano la biodiversità microbica e contribuiscono a disintossicare l’ambiente radicale.
Infine, l’uso di biostimolanti ad azione radicale, come estratti di alghe, amminoacidi o acidi umici può aiutare la pianta a rafforzare la propria risposta agli stress, promuovere lo sviluppo di nuove radici e migliorare l’efficienza nell’assorbimento dei nutrienti, compensando eventuali effetti negativi legati alla presenza di self-DNA nel terreno.
In conclusione, il concetto di self-DNA rappresenta una frontiera innovativa della fisiologia vegetale applicata all’agronomia e, anche se le conoscenze sono ancora in fase di consolidamento, è possibile agire in modo consapevole, adottando pratiche agronomiche che preservino la vitalità del suolo, valorizzino la microbiologia del sistema e riducano i rischi legati a squilibri invisibili ma determinanti.
Direttore AIPO
Associazione Interregionale
Produttori Olivicoli



















