La notizia l’ha data qualche giorno fa Il Sole 24 Ore, richiamando l’attenzione sulle frodi di cui il mercato dell’olio di oliva è vittima. È la notizia di una sentenza della Corte di Cassazione che ha respinto il ricorso presentato da un’azienda toscana leader nel commercio all’ingrosso di olio di oliva contro l’accusa di frode per aver venduto come extravergine al 100% italiano un olio “tagliato” con lampante e mischiato con olio greco e spagnolo. L’azienda, come ha riscontrato il giornale economico, ha come mission quella di “acquistare e miscelare oli diversi per soddisfare la grande distribuzione, e dunque il consumatore medio”.
Approfondendo la notizia, emerge che la guardia di finanza e l’ispettorato centrale repressione frodi avevano messo i sigilli a più di 8 mila tonnellate di olio, stoccate nelle cisterne in provincia di Siena, pari a circa l’1% del prodotto nazionale. Ne è seguita una lunga disputa giudiziaria conclusa con il verdetto della Cassazione che, ricorda Il Sole 24 Ore, da un lato ha annullato con rinvio la confisca disposta sui beni della società, oggi non più Spa ma Srl, solo limitatamente all’ammontare degli importi considerati profitto del reato, dall’altro ha invece respinto i motivi di ricorso tesi a contestare la frode commessa. Una “prassi” illecita, riporta il giornale economico, emersa anche grazie alle intercettazioni, che consisteva nell’uso di olio lampante per “allungare” l’olio extravergine.
Due dunque le questioni dirimenti. La presenza di olio lampante che, come noto, pur essendo classificato tra gli oli vergini, non è considerato commestibile se non dopo un processo chimico, superando tra gli altri l’indice di 20 dei perossidi, parametro che indica la tendenza del liquido ad irrancidire. E per la Cassazione, come rilevato dai giudici di merito, l’inclusione nel prodotto finale di olio lampante poi commercializzato come extravergine, basta a far scattare la frode in commercio, per la «vendita di un bene privo della qualità edibile formalmente promessa». L’altro aspetto è la certificazione non veritiera che garantiva l’origine al 100% italiana dell’olio «sebbene – si legge nella sentenza – composto da masse greche e spagnole». Per i giudici è, infatti, provata la vendita a terzi di olii di provenienza geografica diversa «rispetto a quella pattuita o comunque rispetto a quella effettiva».
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