Giorgio Pannelli: “L’olivicoltura sta morendo, svegliamoci!”

Le tante criticità e le possibili vie di uscita da una costante crisi di produzione
Tecnica e Ricerca
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Sempre utile e stimolante una chiacchierata con Giorgio Pannelli, punto di riferimento dell’olivicoltura italiana, specialmente quando si parla di potatura. Malgrado sia ormai disincantato per quanto sta vivendo il settore olivicolo nazionale, non manca di rilanciare spunti su cui si batte da tempo, evidentemente non arrendendosi alla speranza di un improvviso sussulto generale. Tanto più ora, con la Scuola di Potatura che porta il suo nome che è ormai una solida realtà e dove chi vi si avvicina ha interesse non solo a raccogliere consigli tecnici, ma anche ad assaporare in prima persona quella passione per l’olivicoltura che caratterizza da mezzo secolo la personalità di Pannelli.

L’intervista che segue riprende temi già affrontati con l’ex direttore del Cra – Istituto Sperimentale per l’Olivicoltura di Spoleto; temi straordinariamente attuali, a conferma che Giorgio Pannelli, in fatto di olivicoltura, è uno che sa anticipare i tempi.  

Giorgio Pannelli

Dott. Pannelli, perché è scoraggiato dallo stato dell’olivicoltura italiana?
“I dati statistici parlano chiaro: la produzione è scesa a livelli mai visti prima. E non è perché ci siano meno oliveti. L’olivo è una pianta protetta, c’è una legge del 1951 che ne vieta l’abbattimento”.

Allora cosӏ che non va?
“Semplice: ci sono i cambiamenti climatici che tuttavia impattano sulle regioni di minore rilevanza produttiva. Ma, principalmente, non c’è più cultura nell’oliveto. Si capitozzano impunemente gli olivi in tutta Italia, si va avanti a forza di motoseghe e maltrattamenti vari a tutto il sistema oliveto, non vi è un’adeguata applicazione di tecniche agronomiche ad una coltura che tuttora, con il 6% circa, detiene il primato nella superficie agricola occupata tra le colture perenni. Non vi è stato nel tempo un cambio di passo strategico, un minimo di investimento culturale che possa aver accompagnato il ricambio generazionale. E così tra oliveti abbandonati e quelli mal gestiti, stiamo perdendo non solo la produzione di olio, ma anche il capitale olivo! Eppure, gli olivi e gli oliveti non possono essere considerati come alberi nella esclusiva disponibilità di una proprietà privata, sono strutture multifunzionali in quanto rappresentanti del locale territorio dove svolgono una funzione storica, culturale, paesaggistica, sociale ed ora anche ambientale”.

Che soluzione propone?
“Guardi, i vertici Istituzionali e di Categoria del settore sembrano interessati solo a salvaguardare gli interessi di un esiguo numero di medie e grandi aziende, tra produttori e confezionatori, impegnate nella competizione sul mercato sia nazionale sia internazionale, peraltro senza riuscirci. Anche il mondo Accademico appare allineato sulle medesime posizioni, con un prevalente impegno verso la riduzione esasperata dei costi con forte aumento della densità di piantagione ed allevamento delle piante a filare, con meccanizzazione integrale di raccolta e potatura (olivicoltura superintensiva). Lo facciano pure. Ma salviamo quello che abbiamo e che rischiamo di perdere. Recuperiamo gli oliveti tradizionali entro cui si trova un gigantesco patrimonio di biodiversità olivicola, di storia, arte, cultura, bellezza, ecc.”.

E come fare?
“Torniamo a studiare l’olivo per rispettarne le esigenze fisiologiche: la specie è unica, non avendo nulla in comune con le altre da frutto. In Italia sono state rilevate 620mila aziende olivicole professionali con una superficie media di 1,6 ettari con poche centinaia di piante, mentre sono stimate 300mila aziende amatoriali con una superficie media inferiore al mezzo ettaro con poche decine di piante per una produzione domestica. Entrambe le categorie sono abbandonate a se stesse con una formazione che, quando praticata, replica all’infinito le conoscenze del passato, magari “aggiornate” con qualche opinione, utile solo agli organizzatori dei corsi ed ai docenti, spesso tossica per i partecipanti. Il risultato è il danneggiamento dell’olivo e dell’oliveto che conduce, inevitabilmente, all’abbandono perché la scarsa produzione non supporta gli elevati costi di gestione.

Il trasferimento delle conoscenze maturate in ambito scientifico viene completamente trascurato quando invece dovrebbe rappresentare il passaporto per il rilancio di un settore strategico per l’economia agricola nazionale. Un oliveto correttamente gestito per la produzione di olio di massima qualità adeguatamente rimunerato dal consumatore, potrebbe contribuire efficacemente anche alla riduzione della CO2 nell’atmosfera ed alla salvaguardia un patrimonio strutturale, ambientale, storico e culturale unico al mondo. Dobbiamo inoltre rilevare il valore sociale della coltura per la possibilità di produrre lavoro per i nostri giovani (da cui un contributo alla salvezza di una miriade di piccoli centri abitativi), soddisfazione per il nostro spirito, benessere per il nostro corpo ed anche un minimo di reddito per gli addetti, se i vertici del settore di cui sopra lavorasse nell’interesse dei molti piccoli produttori e non solo in quello di pochi grandi produttori e/o confezionatori.

Ci sono decisioni da prendere, che non sono né facili né difficili, sono semplicemente indispensabili. Serve un progetto di sviluppo credibile e duraturo per l’olivicoltura tradizionale ed ancor più per una auspicabile moderna olivicoltura tradizionale.”

Dunque?
“Ogni pianta, sia in oliveto tradizionale che moderno, dovrebbe godere di adeguata disponibilità di spazio e dovrebbe essere allevata a vaso policonico semplificato nella gestione della chioma, con operazioni di potatura eseguite annualmente in modo rapido, efficiente e sicuro. Paradossalmente è proprio una rapida potatura annuale eseguita manualmente da terra che assicura il massimo contenimento dei costi e la massima espressione del potenziale produttivo delle piante, in condizioni di massima sicurezza per gli operatori.

Tale tipologia di oliveto, più di ogni altra, sottrae CO2 dall’atmosfera fissandola oltre che nelle strutture legnose, anche nell’olio e nel terreno. Nell’oliveto, infatti, c’è anche il suolo che con la sue erbe spontanee (smettiamo di chiamarle infestanti, erbacce o malerbe) che, adeguatamente gestite mediante trinciatura insieme ai residui di potatura, contribuisce alla riduzione dell’erosione considerato che l’humus che si accumula favorisce l’infiltrazione di acqua piovana concimando naturalmente il terreno e riducendo la fertilizzazione chimica con relativi costi.

Questi benefici dovrebbero tradursi in riconoscimenti e sostegni da parte della Politica Agricola Comune, ma anche da parte dei consumatori. Insomma, una corretta gestione dell’olivo e dell’oliveto, così come una gestione sostenibile del suolo, potranno rendere l’olivicoltura un’attività rurale multifunzionale finalizzata non solo alla produzione, ma anche ai suddetti, molti altri obiettivi.

Il modello di coltivazione suggerito assicura anche sostenibilità sociale, ambientale ed economica, creandosi le condizioni per pensare al futuro delle nuove generazioni, alle quali abbiamo il dovere di lasciare oliveti ancora produttivi con piante sane, benché ormai invecchiate e/o danneggiate, ed un ambiente di coltivazione ancora dotato di risorse naturali, tali da assicurare una elevata e duratura produzione di olio”.

Bei discorsi, ma in pratica come fare?
“È qui che l’intera filiera si deve interrogare. Che cosa vogliamo fare di questo milione di ettari? Non basta prendere atto che stanno perdendo in produttività, occorre un progetto. Dobbiamo smetterla di nascondere i problemi sotto il tappeto, perché ce n’è tanta di polvere sotto quel tappeto che da dromedario assomiglia sempre più ad un cammello! Le risposte di ricercatori, economisti, politici, ecc. ai bisogni dei produttori sono purtroppo discordanti, generando una grande confusione quando, invece, gli olivicoltori avrebbero bisogno di grandi certezze”.

E che progetto propone Pannelli?
“Ovviamente Pannelli propone la forma di allevamento a vaso policonico semplificato applicata su piante di qualsiasi età, varietà e località, purché gli oliveti siano concepiti con regolare densità di piantagione e condotti con modalità sostenibili di gestione del terreno. Questa appare l’unica soluzione praticabile per tentare di produrre stabilmente reddito in olivicoltura sia tradizionale che moderna, nel rispetto di Produttore, Pianta ed Ambiente.

Un progetto che utilizzi il metodo scientifico, perché solo la scienza dà una prospettiva futura. E dunque, cambiamo modello nel segno della scienza considerando l’olivo un alleato del produttore nel comune desiderio, rispettivamente, di una abbondante produzione di semi e di frutti. Inoltre, per la sua longevità, l’olivo rispettato può considerarsi interessato anche alla conservazione dell’ambiente che lo ospita.

Se invece di perseverare nella assegnazione di fondi pubblici ai soliti noti, si distribuissero risorse a chi gestisce correttamente olivi ed oliveti, potremmo davvero rinnovare il sistema. In tutta Italia ci sono quasi 300 professionisti, operanti anche in squadre, formati e severamente valutati secondo i suddetti criteri, che dispongono della qualifica di Potatore Certificato rilasciata dalla autogestita Scuola Potatura Olivo (l’elenco completo cliccando qui), quindi capaci di gestire al meglio sia l’olivo che l’oliveto.

Si realizzi, ad esempio, in ogni regione un patto tra questi professionisti, i privati che non hanno modo né formazione per gestire gli oliveti ed il soggetto pubblico che distribuisce le risorse finalizzate a salvaguardare la produzione olivicola, il paesaggio e l’ambiente. In questo modo si potrebbero recuperare migliaia di oliveti abbandonati o malridotti. È solo un esempio, ma ritengo indicativo di come andrebbe indirizzata la politica olivicola-olearia nel nostro Paese. Una pia illusione? Non lo so, ma non voglio arrendermi a questo sistema che sta conducendo l’olivicoltura su un sentiero senza ritorno”.

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Tags: Giorgio Pannelli, in evidenza

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