L’olivo saraceno nella letteratura italiana

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Il particolare appellativo di “olivo saraceno” è stato utilizzato da Pirandello, quando ormai vecchio e prossimo alla fine, ed era alle prese con la sua ultima ed incompiuta opera teatrale “I giganti della montagna”. Sapeva che stava per morire e pronuncia, sorridendo, al figlio Stefano, questa frase “c’è un olivo saraceno, grande, in mezzo alla scena: con cui ho risolto tutto”.

Con questa frase Pirandello, intendeva dire, di aver trovato la soluzione scenografica per “I giganti della montagna”, stava per morire, e nei suoi occhi c’era un vecchio e grande olivo saraceno. «Con cui ho risolto tutto».

Pirandello inventa, ma in realtà sta pensando alla sua fine.

Nell’opera pirandelliana l’espressione “saraceno” ricorre di frequente, difatti la troviamo nel romanzo “I vecchi e i giovani” con «qualche centenario olivo saraceno dal tronco stravolto» o «c’era da più che cent’anni un olivo saraceno, il cui tronco robusto, pieno di groppi e di nodi, per contrarietà del vento o del suolo, era cresciuto di traverso” o nell’operaLa giara” «Era un vecchio sbilenco, dalle giunture storte e nodose, come un ceppo antico d’olivo saraceno» e «a destra, un secolare olivo saraceno; e, attorno al tronco scabro e stravolto, un sedile di pietra, murato tutt’in giro».

L’olivo saraceno è quella pianta che anziché tendere al cielo sembra voglia strisciare per terra, ricurva, attorta. È a simbolo di un luogo, il simbolo della sua memoria, della Memoria, lo scriveva anche Leonardo Sciascia.

Ecco apparire l’utopia: l’olivo saraceno, come emblema della Sicilia, della terra d’origine di Pirandello ed a questo olivo Leonardo Sciascia ha dedicato un saggio, nel quale suggerisce questa affascinante interpretazione:

«Nella visione di Pirandello morente l’olivo saraceno era, memoria e fantasia, una sintesi: un approdo, un ritorno del mito della poesia a quel “luogo della metamorfosi” in cui poteva ridiventare realtà.»

Sciascia descriveva l’olivo saraceno “dal tronco contorto, attorcigliato, di oscure crepe; come torturato, e par quasi di sentirne il gemito. Annoso, antico: e si crede siano stati appunto i saraceni a piantarlo, ad affoltirne la valle tra l’Agrigento di oggi ed il mare”.

Salvatore Quasimodo riporta nella poesia Strada di Agrigentum” («il marranzano tristemente vibra / nella gola al carraio che risale / il colle nitido di luna, lento / tra il murmure d’ulivi saraceni»

Di questo ulivo saraceno ne parlano, oltre il poeta Quasimodo, anche altri scrittori siciliani.

Andrea Camilleri nell’opera La stagione della caccia” riporta: «La casa stava su una collinetta fitta di ulivi saraceni e da certe sue finestre si vedeva la lontana linea del mare» e nel Il cane di terracotta”, della serie poliziesca:

La casuzza a un piano, una càmmara sotto e una sopra, stava proprio in pizzo alla collinetta, seminascosta da quattro enormi ulivi saraceni che la circondavano quasi per intero” e “Torno torno ci sono ulivi saraceni”.

L’archeologo Biagio Pace, ci ricorda che la popolazione chiama, alcuni olivi, “saraceni” con un giudizio storico generico esteso a tutte le cose antiche, per dichiararle fuori dal nostro tempo e dalla nostra civiltà.

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