Anche per l’olivo è possibile intensificare e raggiungere livelli di meccanizzazione più elevati che ormai sono da tempo diffusi in tutta la frutticoltura. Per realizzare nuovi impianti esistono, ad oggi, solo due tipologie applicabili, l’intensivo e il superintensivo.
“A differenziare principalmente i due modelli – ha spiegato Salvatore Camposeo (nella foto), associato di Arboricoltura Generale e Coltivazioni Arboree presso l’Università di Bari – è la tipologia di raccolta meccanizzata delle olive, con lo scuotitore da tronco per gli impianti intensivi e la scavallatrice per quelli superintensivi, e la modalità, rispettivamente discontinua e continua ad albero singolo. Gli impianti superintensivi a filare basso e continuo impongono sesti più stretti sulla fila e cultivar di bassa vigoria con densità da 1.000-1.200 piante a ettaro fino a 2.000 in base a varietà e ambiente pedoclimatico. Hanno tempi di ritorno dei capitali investiti rapidissimi, si parla di 6-7 anni, e durata che finora ha superato bene i 20 anni; per il ritorno degli investimenti nel caso degli impianti intensivi, se tutto va bene, ci vuole il triplo del tempo.
Per il superintensivo si contano già due generazioni di modelli: il primo risalente a fine anni ‘90 e ormai superato, il secondo che riduce tantissimo i costi d’impianto e permette la meccanizzazione anche della potatura di allevamento, quindi di condurre l’oliveto senza toccare mai gli alberi, né per potarli né per raccogliere. Gli oliveti superintensivi hanno avuto una grande diffusione, soprattutto all’estero, dove insistono anche sul 20% della superficie olivicola, mentre in Italia siamo allo 0,3%. Dunque, non è vero che l’olio spagnolo provenga tutto da superintensivo, tuttavia la Spagna ha fatto passi importanti che l’Italia stenta a fare. Quindi la tipologia di raccolta meccanica e il tempo di ritorno dell’investimento sono le due caratteristiche che determinano le scelte della forma di allevamento, delle varietà e la gestione agronomica puntuale e specifica. I risultati economici conseguibili hanno attratto gli investimenti di molti imprenditori e i successi migliori sono di coloro che non provengono dal mondo agricolo, ma dal mondo industriale e non solo perché dispongono di maggiori capitali, ma anche perché sono aperti all’innovazione”.
Nel passaggio dal tradizionale all’intensivo – ha proseguito Camposeo – sono state escluse tutte le varietà di grande vigoria. Agli impianti intensivi, da raccogliere con scuotitori, sono adatte diverse varietà di media vigoria. Per gli impianti superintensivi, invece, a oggi ci sono solo 5 cultivar disponibili, una delle quali brevettata dalla Università di Bari, la Lecciana, piantata nel mondo in 3 milioni di alberi. In febbraio sono state brevettate Olivia e Morena, quest’ultima cultivar da mensa per la concia in nero sarà brevettata entro quest’anno. Quindi la disponibilità di cultivar non è un problema né tantomeno la qualità dell’olio, perché la qualità ha una base varietale è vero, ma dipende anche da tanti altri fattori. Così come non sono un problema la superficie minima necessaria, la disponibilità delle macchine, né la durata dell’impianto. Se una limitazione esiste oggi per il superintensivo non è colturale, ma culturale di approccio. Chi si avvicina a questa tipolodia d’impianto deve avere una mentalità imprenditoriale frutticola perché bisogna applicare all’olivo tutti i criteri della frutticoltura e disporre di assistenza tecnica specializzata, condizione ineludibile”.
A proposito di varietà adattabili all’intensificazione, in Sicilia ne sono state individuate due. In Centro Italia nella ricerca sulle varietà di Marche, Umbria, Toscana e Lazio ne sono state identificate alcune, come Maurino, Leccio del Corno e Piantone di Mogliano che si adattano bene e un’altra, il Piantone di Falerone, molto compatta nella crescita, ma un po’ più alternante nella produzione e più sensibile alle malattie.
BIBLIOGRAFIA: “Tradizione e innovazione per una olivicoltura moderna e di qualità”, a cura di Elena Santilli, Enzo Perri – Crea, Triecol