La storia dell’olio d’oliva è anche la storia del nostro Paese, dei suoi mercati e delle sue trasformazioni sociali. Oggi il prezzo dell’extra vergine è al centro di dibattiti accesi, tra speculazioni, oscillazioni di listino e dinamiche internazionali.
Se volgiamo lo sguardo indietro, un documento del 1936 ci restituisce un’immagine sorprendente: quanto valeva davvero l’olio d’oliva quasi novant’anni fa? Le date riportate nel listino, come “22-8-XIV” e “24-8-XIV”, corrispondono al calendario fascista, quindi al 22 e 24 agosto 1936, confermando la collocazione storica del documento.
A quel tempo l’olio di oliva era più accessibile di oggi o rappresentava un lusso per il consumatore medio?
Criteri perduti: le categorie del listino 1936

La svolta arrivò con il Regio Decreto-Legge del 27 settembre 1936, n. 1986: lo Stato recepì le prassi mercuriali già diffuse e le trasformò in classificazioni ufficiali, distinguendo tra “sopraffino vergine”, “fino” e “olio di oliva” ottenuto da raffinazione o miscelazione.
In questo modo le denominazioni frammentarie e locali acquisirono coerenza nazionale.
Solo decenni più tardi si sarebbe arrivati alla moderna categoria di “olio extra vergine di oliva”: introdotta dalla Legge 13 novembre 1960, n. 1407, con i primi requisiti di qualità (acidità massima all’1%), e perfezionata con parametri chimico-fisici e sensoriali dal Regolamento CEE 2568/91 e dai successivi aggiornamenti, fino al Regolamento delegato (UE) 2022/2104 della Commissione.
Il sacrificio economico: più che un prezzo, ore di lavoro
Il valore economico del 1936, se rapportato ai redditi dell’epoca, racconta una storia diversa da quella che emerge da semplici conversioni monetarie. L’“Extra fino (Bitonto)” quotato a Roma a 635 lire al litro può essere rivalutato con metodi diversi: l’inflazione cumulata porta a cifre altissime, anche oltre i cento euro al litro; i coefficienti di rivalutazione monetaria restituiscono valori più bassi, intorno ai sei o sette euro. Il confronto con i salari medi dell’epoca, però, mostra che un litro di olio di qualità poteva equivalere a diverse ore di lavoro, rendendolo di fatto un bene di lusso. Più che il numero assoluto, conta il sacrificio economico relativo che il consumatore doveva sostenere.
Il divario tra filiera ieri e oggi
Questo divario tra ieri e oggi non è solo monetario, ma riflette l’evoluzione dell’intera filiera. Negli anni Trenta la produzione era manuale e poco meccanizzata, i redditi bassi e l’olio di qualità rappresentava un impegno notevole. Oggi, al contrario, l’extra vergine è definito da parametri severi, con acidità massima dello 0,8%, panel test e certificazioni che garantiscono purezza e tracciabilità. I costi di produzione sono aumentati, ma il reddito medio rende l’olio più accessibile, trasformandolo da bene elitario ad alimento quotidiano.
Il confronto tra 1936 e oggi non serve a stabilire se l’olio costasse di più o di meno, ma a comprendere come sia cambiato il suo valore relativo. Da simbolo di lusso e identità territoriale, l’olio d’oliva è diventato un alimento regolato, certificato e diffuso, pur mantenendo intatto il suo ruolo di indicatore della salute economica e agricola del Paese.
La storia in bottiglia ci ricorda che ogni epoca assegna all’olio un significato diverso, ma sempre centrale nella vita sociale ed economica italiana.

















