II bacino del Mediterraneo è tradizionalmente considerato la culla della nostra civiltà, le cui origini sono comuni alla coltivazione dell’olivo. Il processo di domesticazione dell’olivo è tuttora incerto nella sua dinamica spazio-temporale ed oggetto di dibattito fra gli studiosi. All’ipotesi classica di un singolo centro di domesticazione situato a oriente del Mediterraneo, si contrappone l’ipotesi della coesistenza o successione di più centri in distinte aree circummediterranee.
Studi archeologici, paleobotanici e più recentemente di ordine genetico, suggeriscono che l’inizio di questo processo risalga a 6.000 anni fa e sia avvenuto nelle aree orientali del bacino del Mediterraneo ad opera di popolazioni camito-semitiche, partendo dai progenitori selvatici dell’olivo, gli oleastri.
Gli stessi studi indicano che l’area primaria orientale di domesticazione sia stata seguita da numerose altre aree secondarie, distribuite in regioni geografiche dell’Europa meridionale e del nord Africa (Julca et al, 2020).
Questo lento, lungo e articolato processo è stato caratterizzato da inevitabili fenomeni naturali di ibridazione fra olivi coltivati e olivi selvatici, in parte come conseguenza della diffusione delle piante coltivate dalla parte più orientale a quella più occidentale del Bacino del Mediterraneo e del successivo incrociarsi tra loro o con popolazioni locali di oleastri (Besnard et al, 2013, 2018).
L’olivo selvatico spontaneo (oleastro) è sopravvissuto all’ultima glaciazione grazie alla presenza di aree rifugio occorse in diverse zone occidentali, centrali e orientali del bacino del Mediterraneo (Breton, 2006), che hanno costituito gli habitat originari per il successivo addomesticamento. Attraverso l’azione dell’uomo, le migrazioni e gli scambi commerciali, la coltivazione dell’olivo si è poi estesa in altre regioni limitrofe dal clima temperato (Zohary e Spiegel-Roy, 1975). Una volta selezionati gli individui “migliori” (agronomicamente più validi), la propagazione clonale ha reso possibile la moltiplicazione e la diffusione delle cultivar e delle loro preziose caratteristiche adattative e produttive.
La propagazione clonale ha inoltre facilitato la diffusione delle varietà coltivate dalle zone mediorientali a quelle occidentali attraverso civiltà classiche come quelle dei Fenici, Greci e Romani. Nel corso dei millenni l’areale di distribuzione e coltivazione dell’olivo si è esteso a quasi tutte le regioni circummediterranee in virtù delle condizioni pedoclimatiche favorevoli allo sviluppo di questa pianta, da sempre ritenuta simbolo di pace e di benessere, oggi coltivata anche in parti del mondo assai lontane dalle sue origini.
L’olivo trova in Olea europaea L. la sua denominazione scientifica che deriva dalla prima autorevole descrizione morfologica fatta nel 1753 da Carlo Linneo, il celebre scienziato e padre della tassonomia moderna, nonché inventore della nomenclatura binomiale (Genere specie), cui è attribuito il famoso aforisma “se ignori i nomi, la tua conoscenza delle cose muore”.
L’olivo appartiene alla famiglia delle Oleaceae che conta 28 generi, tra cui il genere Olea, suddiviso in tre sottogeneri: Tetrapilus, Paniculata e Olea. Quest’ultimo sottogenere è suddiviso in due sezioni: Ligustroides (con infiorescenze terminali e talvolta ascellari) e Olea (con infiorescenze laterali) in cui è collocata la specie europaea ripartita in sei sottospecie, di solito considerate a livello genetico la risorsa primaria dell’olivo coltivato, anche se l’ibridazione naturale è stata segnalata solo tra diploidi: cuspidata, laperrinei, europea, maroccana, cerasiformis, guanchica.
La sottospecie O. europaea (l’unica nel genere che produce frutti eduli) è a sua volta suddivisa in due varietà botaniche: O. europaea subsp. europaea varietà europaea (o sativa), alla quale appartengono le cultivar, e il suo progenitore, Olea europaea subsp. europaea varietà oleaster (o sylvestris) che di fatto è l’olivo selvatico spontaneo detto oleastro, da non confondere con l’olivastro che indica invece un soggetto originato dal seme di una pianta coltivata. Sia sativa che oleaster sono presenti in tutto il bacino del Mediterraneo e la loro distinzione si basa su alcune principali caratteristiche della drupa (dimensioni, spessore della polpa e contenuto in olio). Altre differenze riguardano la forma, la dimensione e lo spessore della foglia, nonché la struttura e la presenza di spine.
Nelle zone vocate e di maggiore interesse agrario e commerciale, l’olivo è stato propagato mediante la messa a dimora di piante ottenute dagli ovoli della ceppaia (pollone radicato) o l’innesto (utilizzato dai Cartaginesi). Questa attività con il tempo ha creato un elevato numero di tipi di olivo aventi caratteristiche strettamente collegate all’area geografica. Infatti, la distribuzione delle cultivar è il risultato di secolari conoscenze relative al loro comportamento produttivo e alla loro compatibilità ambientale. Gli olivicoltori, partendo dalla minuziosa selezione empirica degli individui migliori, operata territorio per territorio in ciascun micro habitat, nel corso del tempo hanno cercato di ottenere tipologie di olivi con caratteristiche sempre più rispondenti a specifiche esigenze, creando così un grande patrimonio genetico costituito da piante antiche, piante selvatiche, forme ferali, ecotipi, varietà minori e le cultivar, ossia le principali varietà coltivate ottenute con il miglioramento genetico, che si contraddistinguono per peculiari caratteri morfologici, fisiologici, agronomici e merceologici.
(1 – parte)
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