Tra impianto tradizionale e superintensivo c’è una terza via per un’olivicoltura da reddito, rispettosa della biodiversità, sostenibile e con raccolta meccanizzata. Ne è sempre più convinto Tiziano Caruso, docente di Olivicoltura presso il Dipartimento di Scienze Agrari e Alimentari dell’Università di Palermo (nella foto), forte di 40 anni di intensa ricerca alle spalle.
Professor Caruso, da cosa deriva questa convinzione?
“Dall’osservare che i sistemi olivicoli, pur nella necessaria specificità dell’olivicoltura italiana, che tende a produrre oli artigianali, devono andare incontro ad una loro naturale, necessaria evoluzione. Oggi i nuovi impianti devono essere certamente realizzati con varietà autoctone, perché è questo il plus del nostro extravergine. Ma tra quelle disponibili vanno scelte quelle che entrano presto in produzione, producono molto, con costanza negli anni, oli esclusivi ed essere flessibili nell’adattarsi al tipo di allevamento e, soprattutto, alla meccanizzazione della raccolta”.
Il risultato?
“Il risultato è quello che considero un modello di riferimento attraverso una sperimentazione che sto portando avanti da circa 20 anni, con una varietà del posto selezionata tra gli oltre 150 diversi genotipi che ho collezionato, in Sicilia, nel tempo. Un modello certamente replicabile nelle altre regioni italiane. Ci sono studi di altri colleghi del centro Italia con varietà autoctone che si richiamano perfettamente a questa forma di impianto”.
E di che impianto parliamo?
“Di un sistema intensivo con piante allevate in parete, distanziate 5×2-2,5 m, e cioè con file distanti l’una dall’altra 5 metri e con piante allineate lungo la fila 2 metri, 2 metri e mezzo l’una dall’altra. Totale: dalle 800 alle 1000 piante ad ettaro. Ne sono stati già messi a dimora una cinquantina di ettari qui in Sicilia, in aziende private, come impianti commerciali.
La varietà?
“Calatina, varietà autoctona al 100 originaria della zona di Caltagirone. L’olio è un fruttato medio, così come l’amaro e il piccante, un contenuto di polifenoli che varia dai 350 ai 400, acido oleico tra il 68 ed il 72%. Apprezzabile in cucina perché ha caratteristiche intermedie tra la Biancolilla e la Nocellara del Belice, con sentori di pomodoro, erba fresca, mandorla”.
Che entra presto in produzione cosa significa?
“Che mettendo a dimora una pianta autoradicata di un anno di età, già l’anno dopo inizia a fruttificare. In impianti irrigui, all’ottavo anno di età, sono state raggiunte produzioni di oltre 200 quintali ad ettaro, e nei primi 10 anni non è emerso il fenomeno dell’alternanza . Diciamo che, un impianto intensivo in parete, nei primi 10 anni, dà lo stesso quantitativo di olive che un impianto in volume, basato sul Vaso, può fornire in 20 anni”.
A chi alza la mano, interrompendola, per dirle che l’intensivo va contro una agricoltura che deve tener conto di terreni sempre più asciutti e con poca acqua cosa risponde?
“Che nel contesto ambientale della Sicilia un ettaro di intensivo in parete, a regime, richiede circa 1.200 mc di acqua. E parliamo di mille piante/ha. Un impianto a vaso, con al massimo 400 piante, nelle condizioni della Sicilia, per produrre costantemente, ha mediamente necessità di 600/700 mc di acqua ad ettaro. Senza contare che, in questo secondo caso, la fruttificazione nei primi 7/8 anni è decisamente inferiore.. Aggiungo: l’agricoltura di precisione, potendo oggi fare affidamento su strumentazioni che rilevano le effettive esigenze idriche delle piante, consentono oggi una irrigazione puntuale, indicando se e quando dare l’acqua. Si tratta di protocolli gestionali consolidati in tutto il mondo che solo in Italia fanno fatica ad essere applicati, perché spesso non esiste un servizio di assistenza tecnica diffuso nel territorio”.
Andiamo ai costi di produzione, che poi sono quelli che incidono sulla redditività di un impianto. Quanto sono meccanizzabili raccolta e potatura?
“La raccolta è totalmente meccanizzata e può avvenire sia con la scavallatrice, sia con un vibratore da tronco . La potatura può essere integralmente meccanizzata per ridurre l’altezza delle piante (topping), a mt. 2,40 a 3,50, a seconda della pendenza del terreno e del tipo di macchina scavallatrice disponibile; parzialmente meccanizzata, per ridurre lo spessore delle pareti laterali a non più di 1 m circa (hedging). Questo ultimo intervento, con il quale si tende a rimuovere i rami più robusti che sporgono verso l’interfilare, non può però prescindere da una rifinitura manuale (potatura di precisone) Ma non solo…”.
Cos’altro?
“Avendo una larghezza della chioma di spessore complessivo di non oltre 2 metri, vale a dire 1 metro per ogni lato del tronco, per quanto riguarda la difesa fitosanitaria, un buon atomizzatore riesce spesso a investire completamente la pianta nei trattamenti, senza passare su due lati; sono inoltre oggi disponibili per i trattamenti di difesa macchine scavallatrici che sono dotate di appositi ugelli per rendere ancora più precisa e sostenibile tale azione, sotto il profilo ambientale, limitando la deriva del presidio fitosanitario ”.
Un modello che supera dunque i tradizionali impianti a vaso!
“Intendiamoci, di impianti tradizionali ce ne sono tanti in Italia e vanno mantenuti tali, perché sono anche custodi non solo di attività produttiva, ma anche di biodiversità e di un paesaggio unico che caratterizza i nostri territori. Quello che mi sento di proporre io è un modello diverso che garantisce soluzioni a cui il tradizionale impianto a vaso non può arrivare: dalla meccanizzazione che sostituisce l’attività dell’uomo – sopperendo ad una manodopera che oggi non si trova più – alla maggiore produttività legata sia al numero delle piante per ettaro, sia alla loro precoce entrata in produzione, sia all’efficienza nell’intercettare la luce avendo una più ridotta dimensione della chioma, disposta secondo una parete. Insomma, coniugando perfettamente redditività, sostenibilità e una produzione di qualità basata su oli con caratteristiche organolettiche esclusive, perché ottenuta da varietà autoctone, possiamo costituire nuovi impianti perché quelli che abbiamo sappiamo bene non essere minimamente sufficiente alla domanda di olio Made in Italy”.