Un prodotto che costa poco vale poco. Una regola che si applica a maggior ragione oggi per l’olio di oliva, rispetto al quale la questione del prezzo assume grande rilevanza. I mercati vedono riconoscere all’extravergine italiano una quotazione stabile attorno ai 9,5 euro, un valore nettamente più alto di quello dell’extravergine di origine spagnola, turca o tunisina tanto per citare i paesi dove si è registrata una super-produzione olearia.
E quello del prezzo è stato uno dei temi trattati al convegno promosso da Unapol e Confagricoltura, ed emerso dal confronto tra l’industria olearia (Assitol) e la grande distribuzione (FederDistribuzione).
L’industria olearia

Per la prima è intervenuta la presidente di Assitol, Anna Cane, che ha esordito battendo su un suo chiodo fisso: “Se il prodotto non si paga, come avviene per l’olio al ristorante – ha infatti ricordato – non può esserci da parte del consumatore una giusta attenzione. Per questo vado ripetendo che, almeno nei ristoranti di livello, l’olio abbia un prezzo per dargli il valore che merita e venga raccontato dal ristoratore al cliente per spiegargli con quale prodotto andrà ad arricchire i suoi piatti”. Una questione che riguarda tanto l’olio italiano quanto quello straniero: “Solo con l’olio italiano – ha aggiunto – non si regge il consumo nazionale, arriveremo sì e no a fine maggio e poi sarà terminato”. Concetto che non fa una grinza: con un consumo medio nazionale pro capite di 8,2 kg l’anno, come emerso dall’analisi Ismea, le 244 mila tonnellate prodotte nell’ultima campagna sono sufficienti ad appena la metà del mercato interno.
“Serve l’olio straniero – ha incalzato – e non va demonizzato l’importatore, anche perché grazie all’industria olearia vi è un giro di affari attorno all’olio di oliva pari a 4 miliardi di euro, di cui 2 miliardi grazie all’export, muovendo 600 mila tonnellate complessive e dando lavoro ad oltre 15 mila addetti. Senza contare che la valorizzazione dell’olio con marchi italiani all’estero traina con sé le altre categorie del paniere nazionale, a partire da pasta e pomodoro”. Ed infine un messaggio di natura sociale: “Se oggi è illogico il sottocosto con olio italiano venduto al di sotto dei costi della materia prima, dobbiamo però trovare il giusto compromesso che coniughi l’esigenza di offrire al consumatore un prodotto a prezzi accessibili, specialmente ora che si è compreso che fa bene alla salute, e al tempo stesso la salvaguardia della salute dell’economia della filiera”.
La grande distribuzione
Concetti ripresi da Carlo Alberto Buttarelli, presidente di Federdistribuzione che, da parte sua, ha così inquadrato la questione: “Il valore di un prodotto, che è questione diversa dal prezzo, lo stabilisce il consumatore. Se per il consumatore l’olio di oliva ha un valore, allora è disposto a pagarlo ad un prezzo congruo. Ma guai a farlo diventare un prodotto di nicchia. Se si vuole una fascia alta per il 100% italiano, bene, ma entra in gioco un tema di cultura generale e conoscenza del prodotto e dei sui benefici per far comprendere quel determinato prezzo al consumatore. Insomma, si tratta di un posizionamento che va accompagnato e, in questo contesto, certamente anche la grande distribuzione ha interesse ad una segmentazione. Quanto, infine, al sottocosto, è consentito tre volte l’anno, rappresenta per il supermercato un investimento e, d’altra parte, conferma la bassa fidelizzazione dei consumatori rispetto ad uno specifico brand”.